“Dopo la fortunosa campagna nel gruppo del Monte Bianco, il desiderio di arrampicare su salde rocce a picco, sotto un sole che asciugasse il ricordo delle fredde tempeste dei quattromila, senza ingombro di sacco, di piccozza, di ramponi, con la leggera eleganza che danno le pedule, non mi lasciò oziare per troppo tempo.”

[ Giusto Gervasutti – Scalate nelle Alpi ]

Già, capita un po’ a tutti gli alpinisti; dopo un carnet stagionale ricco di ascensioni ad alta quota spesso la nostra attenzione si sposta verso terreni d’azione alternativi, verso pareti più accessibili, su falesie che si ergono solitarie nel fondovalle, sgombre dalla neve per molti mesi l’anno, a volte raggiungibili con brevi avvicinamenti o addirittura con l’automobile.
Al di là delle capacità e delle ambizioni in gioco, possiamo dire che fu così per Gervasutti e gli scalatori del suo tempo, è così oggi per molti alpinisti, certamente lo sarà per quelli di domani.
Originariamente lo scalare una parete senza raggiungere una cima vera e propria era sostanzialmente un’attività propedeutica all’alpinismo, un modo per allenarsi a bassa quota in previsione di future salite in alta montagna; siamo negli anni ’30, l’epoca del cosiddetto “sesto grado”, quando gli alpinisti si cimentavano su roccia calzando pedule dalla suola in feltro, legandosi con corde di canapa cinte alla vita, proteggendo la via con chiodi in ferro o cunei di legno fatti in casa, e gli imbraghi, le scarpette, gli spit e le altre odierne attrezzature non erano che un lontano un miraggio.
Nonostante i mezzi a loro disposizione essi miravano a obiettivi di prim’ordine; i loro sogni non si fermavano su quelle falesie, il loro pensiero andava oltre, verso le grandi pareti simbolo dell’alpinismo classico, poiché arrampicare su una parete senza vetta dava loro la sensazione di scalare su itinerari di “Serie B”, ma era solo questione di tempo.

Venne il sessantotto e con esso non vi fu solo la rivoluzione politica, sociale e di costume che tutti conosciamo; anche l’alpinismo italiano fu influenzato dal fermento giovanile e le pareti che sino ad allora non erano state degne di nota divennero il terreno d’azione di un nuovo movimento, il cosiddetto “Nuovo mattino”.
Rifiutando completamente i dogmi dell’ambiente alpinistico classico, tra i quali scalare per il solo fine di raggiungerne una cima e considerare l’alpinismo come un atto intriso di eroismo e sofferenza, questa nuova corrente si propose di vivere l’arrampicata in modo libero, svincolato da regole e preconcetti esistenti, sulla scia di quanto stava già accadendo nella lontana California, a Yosemite, con il “free-climbing”, menzionato in un celebre brano dello scrittore ed alpinista – nonché massimo esponente del Nuovo Mattino – Gian Piero Motti: “Il free-climbing, inteso non tanto nel senso di arrampicata libera ma in quello più ambizioso e filosofico di libero arrampicare, pareva essere nato come espressione di libertà e di assoluta disinibizione”. Se in Italia non esistevano pareti alte quanto El Capitain, vero e proprio colosso di roccia su cui si cimentavano i colleghi d’oltreoceano, Motti e compagni trovarono comunque pane per i loro denti su formazioni rocciose di minor altezza, ma non per questo meno impegnative; fecero così la loro comparsa nel mondo verticale italiano il Caporal ed il Sergent, due nuove falesie “scovate” in Valle Orco, battezzate così in omaggio al il gigante americano, sulle quali vennero tracciati itinerari destinati a passare alla storia, tra i quali Sole nascente, Cannabis Rock, Itaca nel sole, La fessura della disperazione.

Questo fu solo l’inizio di un cambiamento che con il tempo si rivelò davvero epocale; l’arrampicata divenne pian piano la disciplina che oggi noi tutti conosciamo ed amiamo, non più solo un mezzo per salire avventurosamente una montagna, ma un’attività il cui l’unico scopo sta nel divertimento, nel gesto atletico, nell’individuare e superare un itinerario più o meno difficile su una qualsiasi parete, nel provare un assoluto senso di libertà salendo una “linea”.

Se l’alpinismo e la corsa alle grandi montagne permisero di sviluppare nuove attrezzature alpinistiche, la creatività degli arrampicatori degli anni ‘60, ‘70 e ‘80 fece altrettanto, dando impulso alla ricerca di strumenti utili affrontare vie sempre più impegnative, la cui difficoltà sembra spostarsi ancor oggi sempre più in alto, verso livelli un tempo inimmaginabili.
Nel mondo verticale fecero comparsa le scarpette a suola liscia, i moderni imbraghi, i vari sistemi di assicurazione rapida e nuovi discensori. Se le “pedule” di Gervasutti – i suoi scarponicini leggeri dalla suola in feltro – cedettero il passo a nuove calzature, “la leggera eleganza” di cui egli fa menzione nel brano introduttivo non scomparve, tutt’altro; grazie ad un equipaggiamento più evoluto gli scalatori si sono trasformati da semplici funamboli a veri e proprio artisti del cosiddetto “gesto arrampicatorio”, citato anche dall’alpinista Joe Simpson nel romanzo “Touching the void”: “Adoro il movimento della scalata, quando si sale bene è bellissimo, è una specie di combinazione tra danza e ginnastica, un misto di forza e grazia”.
Il resto è storia recente. Negli ultimi decenni l’arrampicata si è evoluta e ramificata in diverse discipline e specialità, come l’arrampicata indoor, il free solo, le salite di difficoltà e velocità, il boulder, e ciascuna di esse può contare su esponenti di spicco, tra i quali l’inossidabile Maurizio “Manolo” Zanolla, il nostro conterraneo Alberto Gnerro, la leggenda vivente Lynn Hill, i giovani talenti Maja Vidmar e Adam Ondra.
Non ci dilungheremo parlando di specialità, gradi o relazioni, per quello esistono molti siti ed ottime riviste specializzate; con queste poche righe abbiamo voluto fare, speriamo senza presunzione, una carrellata sulle stagioni di un mondo affascinante e variegato, sulle emozioni che suscita da sempre sull’uomo, su un universo, quello verticale, nato sulle montagne, rinato ed evolutosi ai piedi delle stesse, ma che alle montagne sembra destinato a strizzare l’occhio per sempre.

L’Associazione Montagna Amica si dedica all’arrampicata sin dall’anno della sua fondazione, praticandola a vari livelli e con diverse modalità.
Durante i corsi di alpinismo si programmano lezioni indoor ed in ambiente naturale, su vie di uno o più tiri, al fine di trasmettere agli allievi i fondamenti di questa disciplina; a queste uscite si aggregano con assiduità altri soci, organizzati in cordate autonome, contribuendo così ad alimentare il nostro spirito del vivere la montagna in amicizia e sicurezza.
Nel corso dell’anno si compiono anche uscite di gruppo non organizzate secondo uno specifico calendario, che vengono compiute nelle aree Biellese, Canavese, Ligure e Valdostana, prediligendo la frequentazione di falesie aventi un discreto numero di vie di varia difficoltà e tipologia, in grado perciò di garantire la possibilità di scalata a tutti i partecipanti. Minimo comune denominatore di queste uscite non è quindi “la ricerca del grado”, bensì l’arrampicare in compagnia, il migliorarsi grazie ai consigli dei compagni più esperti, il ripassare le manovre di corda ed il pianificare future uscite.
I soci più esperti organizzano altresì uscite più tecniche e difficili su vie spittate o interamente da proteggere, su itinerari classici o moderni, in falesia o in montagna; in questi casi il raggio d’azione è decisamente più ampio, lo dimostrano le trasferte compiute negli anni verso la Val di Mello, in Valle Orco, sulle Dolomiti, verso la Val Grande, sulle falesie della Sicilia o nelle affascinanti gole del francesi del Verdon.

Per i soli partecipanti adulti è richiesto il tesseramento all’Associazione per l’anno in corso.

Per qualsiasi ulteriore informazione è possibile contattarci all’indirizzo di posta elettronica info@montagnaamicabiella.it.

Vi aspettiamo numerosi!